Divergenze ha un proprio codice di trasparenza editoriale.

L’editoria, di cui il marchio fa parte, nell’immaginario popolare, è quell’industria che prova a fare denaro pubblicando libri. La differenza tra un editore buono e uno generico è che il primo dovrebbe produrre più o meno solo buoni libri, ovvero opere di cui va fiero, anziché semplici oggetti per il fatturato ai quali può rimanere indifferente. L’editore buono poi ha un’ulteriore caratteristica: dei libri cura anche l’aspetto e i materiali, oltre al contenuto, che banalmente corrisponde alla scelta dei titoli. Per questo il mestiere di «fare libri», a volte, è un’arte, e in quanto attività artistica
non rende come una banca o un negozio di telefonia. Anzi, sovente sperpera capitali per dare vita a chimere.

Ciò premesso, è bene distinguere tra editori autentici ed altre realtà come stamperie o tipografie
che applicano ai libri un proprio nome, ma di fatto non sono editori.

1.
L’editore non chiede soldi agli autori, né contributi ad enti pubblici o privati per realizzare volumi, giacché si assume il rischio d’impresa. In pratica: crede in quello che promuove. Chi chiede contributi in qualunque forma è un produttore di carta stampata, di fascicoli, uno stampatore o un tipografo, anche se i suoi libri hanno un codice Isbn. Tali realtà vengono definite EAP, o editori a pagamento, oppure a doppio binario, ossia imprese presso cui alcune operazioni sono canoniche, altre a sovvenzione, ma a prescindere negano il concetto di editoria pura. Un editore vero non chiede all’autore di comprare copie del proprio libro, né di farle acquistare ad amici, parenti, co­noscenti o colleghi di quest’ultimo per nessuna ragione.
Al contrario è tenuto, anche per buona deontologia, a donare almeno tre copie dell’opera al­­l’autore.


2
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L’editore non assume in forma temporanea stagisti senza retribuirli, o dando un generico rimborso spese, con il pretesto di un contatto con il circuito e l’esperienza all’interno di esso: il tempo e gli impegni hanno un valore. L’etica dell’editore gli permette anzi d’organizzare premi, stage e corsi senza che nessuno dei partecipanti abbia né a sborsare un centesimo per l’adesione, né l’editore tragga vantaggi – eccetto la promozione delle conoscenze
o la valorizzazione di un lavoro nel merito – dal­l’im­pe­gno degli aderenti. Neppure se in sinergia con enti, istituti ed altre realtà.


3
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L’editore non agevola crowdfunding gestiti dall’autore per dare modo a costui di pubblicare un’opera che gli garantisca un numero minimo di vendite, poiché verrebbe meno al punto 1, negando il rischio d’impresa poiché non crede, né è interessato a credere, ai contenuti dell’opera. O vi è interessato, purché dietro un compenso che però non è frutto del suo impegno e della perizia nel lavoro.

4.
L’editore ha una rete di distribuzione nazionale che permette ai propri titoli di arrivare in tutte le librerie fisiche, di catena o indipendenti
– tranne quelle che si impongono un handicap, limitandosi a determinati circuiti –, non­ché agli store online.
E laddove il libro non è presente per limiti di tirature o per legittime scelte dell’esercente, il distributore ne garantisce la fornitura
al punto vendita, al quale basterà ordinare le copie che desidera in una manciata di secondi al computer.

5.
L’editore non fa promuovere le opere dagli autori (i quali sono comunque liberi di parlare dei propri libri),
ma deve avere un ufficio stampa interno o esterno che comunica con gli organi mediatici.


6
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L’editore serio remunera chi collabora alla realizzazione dei libri, quindi traduttori, editor, grafici, nonché l’au­tore,
al quale spetta, salvo sostegno a progetti umanitari o finalità di interesse sociale indicate nel contratto,
una quota minima del 7% sulle prime mille copie vendute e almeno il 10% dalla millesima in poi.

7.
L’editore serio legge tutti gli scritti che riceve, senza preferenze di qualunque natura. Con la medesima serietà il marchio risponde ad ogni autore
o agenzia di rappresentanza. La professionalità dell’editore si manifesta nella parità di trattamento e di attenzione verso ognuna di quelle figure.


8
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Tutti i servizi, dalla lettura alle schede di valutazione, fino alle revisioni (editing) delle opere e quant’altro sono a carico dell’editore.
Viceversa, l’esercizio non può essere considerato editoria, ma – come al punto 1 – di nuovo stamperia o tipografia.


9
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L’editore serio non guarda alla fama o al numero di seguaci degli autori, né al loro curriculum, in quanto non danno la certezza della qualità
delle opere presentate da costoro. L’editore serio legge con cura e valuta tutto ciò che riceve a prescindere dal nome, e se esclude un’opera
non lo fa per cattiveria o per capriccio, ma perché quel titolo sarebbe come un ingranaggio di plastica in un motore di metallo.


10
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La pubblicazione di un’opera, instant book a parte, ha una gestazione che può richiedere anche anni, poiché l’editore serio non improvvisa.
Egli segue tutte le definizioni delle opere come un medico segue un paziente e ha un calendario da rispettare,
tiene informati gli autori di tutto ciò che riguarda i loro lavori prima, durante e dopo la pubblicazione.


11
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L’autore che si affida a un’agenzia editoriale per sistemare o per rendere «editorialmente più qualificata» o appetibile, o altro aggettivo ancora, un’opera, non può imputare all’editore alcunché, laddove riceva riscontro negativo da parte dei consulenti del marchio. L’agenzia editoriale infatti può servire a confrontarsi con presunti o veri specialisti (sempre che ve ne siano: la buona editoria è arte, non pura strategia di mercato), essere quindi una forma di palestra a pagamento per esercitare la penna, ma è inutile a rendere davvero interessante un lavoro agli occhi dei consulenti di un marchio. Ciò che cerca l’editore serio è la qualità delle storie prima dello stile o di qualunque altra redazione formale,
e interverrà in ogni caso sul testo mediante una sinergia fra l’autore e un re­visore interno.


12
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L’autore che si serve di una agenzia letteraria deve tenere conto degli aspetti elencati nel punto precedente e non può imputare all’editore alcuna colpa sull’eventuale rigetto della propria opera, dopo una accurata lettura. Inoltre i servizi al punto 8, che presso l’editore sono gratuiti, altrove sono a pagamento. È l’autore a scegliere se remunerare un tramite per avere un parere e una scheda di lettura utili (forse) a sé ma completamente inutili agli editori, quindi attendere la legittima tempistica di agenti o agenzie anziché proporre direttamente il proprio lavoro ai marchi seri.
Quelli che, si veda il punto 7, per correttezza leggono tutto.


13
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Se l’editore ha il catalogo pieno e al momento esclude la possibilità di valutare altri scritti, non lo fa per una forma di bassura etica, ma perché pubblicare costa. Per giunta, se l’editore è buono e non generico il costo si fa altissimo, data la cura dei contenuti e dei materiali. Il buon editore ha un calendario da rispettare, nel quale non può inserire titoli tranne scalzandone altri, e la correttezza gli vieta un simile gesto. Laddove invece l’editore non dia feedback agli autori interviene una dinamica relazionale che se da un lato non è indice di buona educazione, dall’altro può avere alla base fattori limitanti: da un errato approccio da parte dell’autore nella presentazione, a un mancato recapito della richiesta, fino all’utilizzo di un canale sbagliato, frutto di una lettura poco attenta dei parametri che il marchio ricerca. Difficile che un editore specializzato in testi di saggistica valuti un fantasy, per fare un esempio. Infine, l’atteggiamento: che l’artista vada scisso dall’uomo è uno stereotipo da sfatare. Se l’auto­re è una persona ammodo, che svolge un’attività artistica e/o culturale animato da sincera vocazione, sarà anche una figura con la quale sviluppare un’intesa reciproca
priva di ombre, lamentele, scorrettezze. Perché l’editore serio è parente delle opere che pubblica e amico di chi le genera.


14
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Se l’autore ritiene di avere scritto un capolavoro e l’editore non lo giudica tale, costui non è per forza un incompe­tente, né rappresenta un marchio che pubblica solo raccomandati. La fallibilità umana vale per tutti, e se nel passato vi sono stati rifiuti eccellenti diventati poi miti della narrativa (da King a Orwell, da Grisham a C. S. Lewis, che con le Cronache di Narnia fece incetta di bocciature, fino ad Agatha Christie), ciascuno di quegli autori ha poi avuto, prima o poi, il riscontro che meritava. Dunque, o l’opera dell’autore non è esattamente il capolavoro che egli la reputa, oppure è questione di uno degli approcci presentati nel punto 13. In ogni caso, smettiamola di chiama­re le opere manoscritti: nessuno, tranne pochissimi, scrive più a mano, ed è un peccato giacché nulla si conserva, e a mano si va piano e ci si prende il tempo di pensare.