Milano, 24 giugno 2023
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Nel solco tracciato dai Literary translation projects di matrice europea, Divergenze dà vita a una iniziativa in campo editoriale,
per offrire a un under 26 di talento l’opportunità di tradurre un’opera, che verrà introdotta nel circuito ufficiale dopo un percorso di selezione.

L’opera sarà realizzata, pubblicata e distribuita nel catalogo internazionale, secondo gli standard di merito
sanciti dall’Osservatorio sulla qualità dell’editoria in cui figura la casa editrice.

Al fine di trovare un elemento che unisca attitudine, passione, competenza e serietà, è bandita una selezione
senza vincoli nominali o di genere, le cui adesioni avranno luogo dal 26 giugno al 9 luglio 2023.

Mediante due prove pratiche e una attitudinale, da compiere entro il giorno 22/07/2023, verrà selezionato il talento più cristallino.

Le prove pratiche sui testi saranno scelte in rapporto alle attitudini dei candidati, per favorire l’individualità e agevolarne i compiti.

Ogni candidato riceverà aggiornamenti in itinere, puntuali e precisi, sul proprio operato.

Il giorno 29/07/2023 verrà comunicato il nome del vincitore.

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Le singole prove sono predisposte in rapporto alle attitudini dei candidati, onde favorire l’individualità e agevolarne i compiti sotto ogni profilo.
Ogni candidato riceverà aggiornamenti in itinere, puntuali e precisi, sul proprio operato.
Consapevole dell’enorme impiego di energie materiali e spirituali da parte del direttivo e dello staff, la casa editrice
sarà fiera di curare e diffondere al meglio il lavoro di un’eccellenza della traduzione letteraria.
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Per prendere parte alla iniziativa: ufficiostampa@divergenze.eu


Milano, 24 luglio 2023
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Le traduzioni fra cui verrà scelta la migliore per attitudine del partecipante e qualità del lavoro,
come indicato nei parametri, sono ad opera di:

Angelo Salvetti
Martina Del Buono
Alice Baldelli
Luciano Mazzone
Silvia Baiettini
Paola Ciriello
Linda Zanini
Lorenzo Russo
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*con riserva:
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Chiara Perotti

Laura Canevari
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A tutti i candidati è data la possibilità di rivedere la traduzione alla luce dei suggerimenti dei professionisti del comitato di valutazione.
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Milano, 29 luglio 2023
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La migliore traduzione fra le dieci selezionate, dunque sulle 668 partecipanti a Young talents,
con la media di 9,7 su 10 risulta essere la versione italiana di The sound of the stream (Le voci del torrente)
di Sherwood Anderson, preparata e firmata con competenza professionale da Lorenzo Russo.
Una menzione di merito speciale va ai lavori di Silvia Baiettini e Linda Zanini, i cui racconti tradotti,
rispettivamente Shelby, di Charles Hanson Towne, e The supreme illusion, di Arnold Bennett,
sono ritenuti dalla giuria validi a livello narrativo e degni di pubblicazione.
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Estratto del primo terzo della traduzione di Lorenzo Russo.

La mia casa è vicina a un torrente di montagna. Un torrente pieno di suoni e di notte, da quando ho finito di costruire la casa e la abito, lo sento parlare. Quante notti vi ho passato, coricato a letto, mentre dalle porte e dalle finestre spalancate sul torrente entravano quei suoni.
Il torrente scivola sulle rocce, sotto un ponte, e da qualche parte ho scritto di come i suoni cambino durante le notti più buie, caricandosi di evocazioni1. Vi era il suono lieve di piedi fanciulli che correvano sulle assi del ponte. Un cavallo al galoppo, soldati in marcia. La notte sentivo i passi dei vecchi amici, le voci delle donne amate2. C’era una ragazza zoppa3 con la quale avevo fatto l’amore dietro un cespuglio, in un parco di città. Lei aveva pianto e di notte, sul ponte del torrente vicino a casa, udivo il rumore inquietante dei suoi passi, con quel bizzarro ritmo irregolare… e le voci di Fred, Mary, Tom, Esther e di cento altri, amati e perduti in quella che chiamavo la vita reale, e sopra le loro voci riecheggiavano ogni volta i passi e le voci degli abitanti del mio mondo immaginario. I passi lunghi e lenti di Hugh McVey si fondevano, diciamo così, in quelli di Carl Sandburg o Ben Hecht. Gli amici, John Emerson o Maurice Long, camminavano4 a fianco del dottor Parcival. I passi leggeri dell’uomo che in Molti matrimoni è nudo nella stanza con la figlia, li sentivo5 accanto a quelli di chi m’era caro nella vita vissuta lontana dallo scrittoio.
I suoni del torrente mi parlavano: erano un mormorio, talvolta delle grida, e notte dopo notte le colmavano di vita…
Al principio dell’estate era arrivata una lettera del mio agente. Può darsi fossi stato io a scrivergli per primo: aveva in mano dei racconti da piazzare6.
“Non potrebbe venderli a qualche rivista, per favore? Ho bisogno di denaro”.
Aveva risposto. È coscienzioso, uno che ci sa fare.
“Ammetto che sono ottimi lavori. Peccato che in tutti ci sia sempre qualcosa che ne ostacola la vendita”.
Non aveva aggiunto altro, ma sapevo cosa intendeva.
“Senta,” aveva detto una volta, “perché non rinuncia, almeno per ora, a quella scrittura un po’ intimista?”.
L’aveva detto sorridendo, e io ricambiai.
“Mettiamo che lei sia il direttore di una delle riviste più importanti, qui, in America. L’ha conosciuto anche lei il mondo degli affari. Quando ha iniziato a scrivere lavorava per un’agenzia pubblicitaria, e pure dopo la pubblicazione delle prime opere ha dovuto rimanerci qualche anno. Dovrebbe sapere che tutte le riviste a grande diffusione, qui7, sono un rischio commerciale: stampare e distribuire centinaia di copie costa molto. Spesso, come saprà, il prezzo a cui la rivista viene venduta in edicola non copre neppure il costo della carta sulla quale è stampata.
“Certo, lo so”.
“E hanno bisogno di storie che piacciano alla gente”.
“Me ne rendo conto”.
Eravamo andati a bere qualcosa in un bar. Qualche settimana prima, però, mi aveva mandato una lettera:
Ci sarebbe una rivista importante interessata a pubblicare un suo racconto. Dovrebbe avere sulle diecimila parole. Non lo termini: prepari una traccia, diciamo tre o quattro pagine. Penserò io a venderlo.
Abbozzai la traccia e gliela spedii.
“È perfetta” scrisse. “Ora può anche continuare. Sarebbero disposti a pagarglielo la tale cifra”.
Perbacco! Con quella somma mi sarei tirato fuori dai guai.
“Lavorerò sodo” mi dissi. “In una settimana metterò giù il racconto”.

Una sera di due o tre settimane addietro m’ero incontrato con un amico, una persona alla quale sono molto affezionato.
“Andiamo a fare una passeggiata” disse, e ci incamminammo verso la periferia della cittadina in cui viveva. Ero andato a fargli visita, ma quando arrivai a casa sua sembrava scoppiata un’epidemia. Due dei bambini erano allettati con una malattia contagiosa.
Presi alloggio in un hotel; lui venne a prendermi. Uscimmo dalla città e imboccammo una strada in terra battuta, passando dinanzi ad alcune fattorie, mentre i cani ci abbaiavano contro. Entrammo in una radura illuminata dalla luna. Si era camminato a lungo senza dire una parola e in hotel avevo notato come fosse agitato e nervoso: “Ti deve essere accaduto qualcosa. È per i bambini? Sono peggiorati?”.
“No,” rispose, “i bambini stanno meglio, sono fuori pericolo”.
Eravamo nello spiazzo, sotto la luna, vicini a un recinto, e alcune pecore brucavano poco distante: era una incantevole notte d’inizio estate.
“C’è una cosa che devo dire a qualcuno. Per questo avevo scritto pregandoti di venire”. L’amico gode di un’ottima reputazione presso i concittadini.
Cominciò a parlare. Andò avanti per ore e raccontò l’avventura della sua esistenza segreta. Essendo l’amico un cinquantenne che lavora nel laboratorio sperimentale di una grande industria – e io un tipo piuttosto fortunato perché ho parecchi buoni amici, amici come lui, che come avrete intuito sto proteggendo –, se dico dove lavora è più che sufficiente.
Nell’insieme, il racconto era singolare. Somigliava a tante storie per nulla frutto d’invenzione, ma scaturite dalla vita stessa. La vicenda era piena di quelli che si definiscono aspetti sordidi; un uomo in preda a strani impulsi, nella morsa di un’insolita passione.
“Ho fatto questo. Ho fatto quest’altro. Ho bisogno di levarmi questo peso, e ho bisogno di dirlo a qualcuno. Ho sofferto”.
L’amico si liberò della storia, trovando un po’ di conforto nel parlare di ciò che rappresentava una svolta, un mutamento tale da minacciare di rovinare il ruolo conquistato in comunità. Gli era esplosa una infatuazione improvvisa per una donna che abitava nella medesima cittadina:
nei piccoli agglomerati capita spesso.

“Tre anni fa” mi disse “un altro uomo di qui, un amico, anche lui una persona in vista, fece la stessa cosa. Si innamorò di una donna del luogo, la moglie d’un amico, e cominciarono a vedersi di nascosto. Quantomeno così credeva, o sperava. Si comportava proprio come me. La sera, appena scendeva il buio prendeva l’auto. Lei intanto usciva a piedi, e lui la faceva salire in qualche punto poco illuminato della strada. Prendevano viuzze secondarie, andavano distanti, in altre città: eppure, di lì a poco, la faccenda diventò di pubblico dominio. Sapessi quanto lo biasimai per questo! Andai a trovarlo e gli dissi: “Stai facendo una sciocchezza colossale”. “Hai ragione, ma non posso farci niente. È il grande amore della mia vita”.
“Assurdo” dissi. Lo supplicai, addirittura litigammo, ma fu tutto inutile.
Ero sicuro si stesse comportando da perfetto imbecille ed ora eccomi qua: sono nell’identica situazione.

Avevo preso la storia dell’uomo con cui avevo parlato nella radura a modello per il racconto da scrivere, per conto di una rivista d’ampia diffusione. M’ero preparato una traccia che l’agente trovava perfetta. Però vi erano particolari alquanto scabrosi, e avevo dovuto ammorbidirli.
No, non posso far vedere che un uomo così rispettabile, con un ruolo tanto importante nella mia vita, ha agito in questa maniera. Se voglio intascare quel denaro non dovrà esserci niente di sgradevole, niente che ricordi ai lettori quanto c’è di meschino nella loro, di vita”. Momenti, pensieri, sentimenti, gesti “e quel denaro mi serve, eccome se mi serve”. Non sono certo Shakespeare, ma non ha scritto anche lui una commedia dal titolo Come vi piace? Quando si scrive per piacere alla gente non si devono sfiorare certi anfratti reconditi, oscuri, celati dentro di noi. Cerca di stare in superficie, vecchio mio. Vai avanti tranquillo. Non sarà male sorprenderli un poco. Nel tuo racconto andrà inserito qualche elemento sensazionale. Ma la notte, l’uomo la cui storia mi aveva offerto l’ispirazione per la mia, mentre parlava, era semplicemente a pezzi. Aveva perfino appoggiato il viso sulla sbarra superiore del recinto, in quello spiazzo lunare, e si era messo a piangere. M’ero avvicinato, abbracciandolo, e gli avevo mormorato qualcosa.
“La passione che si è impadronita di te, in questa fase della vita, minaccia di fare a pezzi tutto ciò che hai costruito con tanta cura,
di rovinare la vita a quelli che ami; ma non durerà, vedrai. Alla nostra età tutto passa”.

Non ricordo cosa gli dissi esattamente. Tant’è cominciai a scrivere, ma ahimè… il guaio di noi scrittori è che, mentre lavoriamo, i personaggi dei nostri racconti ci coinvolgono, ci assorbono; e spesso ci innamoriamo un pochino di loro via via che paiono crescerci tra le mani. Ho iniziato il racconto partendo, per così dire, dalla vicenda che il mio amico aveva narrato nella radura; ma ora che sto scrivendo lui è scomparso.
Adesso sta prendendo vita un altro uomo. È come se fosse proprio qui, nella stanza in cui lavoro. “Ora devi essere imparziale con me” pare dirmi. “C’è in gioco una specie di morale. Bisogna che tu dica tutto, e scriva ogni cosa. Non esitare. Voglio che venga messo tutto nero su bianco”.
A quel punto, sulla scrivania, c’era un plico di lettere che mi ero fatto tirare fuori dagli schedari.
Tutte le lettere avevano a che fare con le fasi di preparazione di un racconto.

“Se vuole scrivere il racconto per noi, sarà bene che tenga presenti alcuni punti. La storia dovrebbe ruotare attorno alla vita di persone che potremmo definire benestanti. Soprattutto, non dovrà essere troppo triste. È chiaro, beninteso, che non intendiamo imporle nulla, nel modo più assoluto”.
Mi ero seduto a scrivere la bozza spinto dal bisogno disperato del denaro che avrei potuto ricavarne. Erano venticinque anni che scrivevo: avevo pubblicato fra i venti e i venticinque libri, mi ero fatto un nome come uno degli autori americani più importanti del proprio tempo, i miei libri erano stati tradotti in varie lingue: nonostante ciò ero sempre squattrinato, a un passo o quasi dalla rovina.
“D’accordo, farò così. Sì, lo farò”.
Per due giorni, tre giorni, una settimana, scrissi con accanimento e ostinata determinazione.
“Darò loro esattamente ciò che vogliono. Una volta qualcuno mi disse una cosa che mi colpì e che non ho più dimenticato: per avere successo e diventare popolari è indispensabile, prima di tutto, rispettare le cose da non fare”.
È venuto a trovarmi un amico, un altro scrittore americano, ed ha nominato un’autrice che sta godendo di una enorme popolarità.
“Ragazzi, sta facendo un mucchio di soldi” diceva. Eppure sembrava che anche lei ogni tanto pigliasse una cantonata,
a dispetto dell’esperienza e della sicurezza.
Può anche darsi che ora, riferendomi a quell’episodio, vada confondendo quanto accadde all’autrice con le molte altre storie simili che m’è capitato di sentire. Comunque, ciò che ricordo è che l’autrice lavorava all’adattamento cinematografico di un romanzo molto popolare. Un romanzo scritto una generazione addietro, e c’era una scena in cui una madre sgridava il figlio che mangiava caramelle
prima della colazione. “Lascia stare quella robaccia. Vuoi rovinarti la salute?”.

È probabile che nella sceneggiatura ci fosse una frase che suonava più o meno così. Passò inosservata e andò a finire nel film.
Com’era possibile una cosa del genere, con tutti i miliardi di pubblicità spesi dai produttori di caramelle?
Come si potevano chiamare le caramelle robaccia e insinuare che facessero male ai bambini?

L’amico mi aveva raccontato di una grossa causa per danni indetta da fabbricanti di caramelle indignati.
“Accidenti, ce ne saranno migliaia di cose da non fare” mi dissi.
“Sarebbe meglio che i personaggi del tuo racconto godessero di quella che potremmo dire una condizione agiata”.
Avevo sentito pronunciare quella frase da qualcuno. La trascrissi e la misi sopra il tavolo. Così andai avanti a scrivere per una settimana, in preda a un malessere crescente. Proprio io, che avevo sempre amato le risme di fogli bianchi e vergini pronti sul tavolo, io che per anni ero stato ossessionato dall’idea che un giorno, per caso, un irresistibile impulso di scrivere mi avrebbe travolto cogliendomi privo di carta, matite, penne e inchiostro, e quindi rubavo di continuo penne stilografiche e matite degli amici, mettendole da parte come fa lo scoiattolo con le provviste di noci; io che quando partivo per un viaggio anche breve, curavo di caricare in auto una quantità di carta che sarebbe bastata almeno per cinque romanzi ponderosi, io che in casa avevo accumulato boccette d’inchiostro nei punti più impensati, mi ritrovai inaspettatamente a odiarne l’odore.
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1. La traduzione letterale sarebbe “significati strani” però non c’è nulla di strano in ciò che stimola la memoria di cose udite, sentori provati, figurazioni e rimandi reali. Sono, appunto, evocazioni, peraltro più in linea con la poetica dell’autore.
2. Anche qui, la traduzione linguisticamente più logica sarebbe “che avevo amato”, ma ho tentato di cogliere l’afflato onirico attraverso una soluzione più immediata.
3. Anderson ripete “della quale avevo scritto” rifacendosi appunto a note private poi divenute pubbliche in un’opera, dunque sopprimo con intenzione il riferimento: sarebbe, per di più, una ripetizione, siccome poco prima aveva chiarito la questione.
4. L’autore passa al tempo presente (letteralmente, sarebbe “che camminano”) ma essendo un esercizio mnemonico, ritengo sia un bene la linearità del passato con cui va narrando i fatti dentro di sé e nel contempo ai lettori.
5. Ho sostituito il verbo “essere” con un più adeguato “sentire”, poiché quella è l’azione che egli nell’atto percettivo – e narrativo – compie.
6. L’originale sarebbe “dei racconti inviatigli, perché li vendesse” ma, onde evitare un repetita molesto e inopportuno, riassumo in piazzare, che sostituisce in forma e contenuto il concetto senza alterarne la valenza.
7. L’agente ripete “riviste americane”, e il “qui” rende l’idea con una semplicità più caratteristica dei dialoghi.