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La filosofia delle esistenze relative

La filosofia delle esistenze relative, quinto titolo della collana di novelle “scintille”,
è la prima traduzione italiana dell’opera di uno dei più apprezzati e fantasiosi storyteller
di fine Ottocento. In un luogo che trascende gli elementi razionali,
un filosofo e un poeta incontrano i fantasmi del futuro e rileggono il presente,
nella luce del dubbio, come una commedia scalena.
«Mi è stato riferito, signori, che in quella città nessuno ha mai dormito neppu­re una notte.
Ha le sue belle strade, gli uffici, le chiese, le sale pubbliche e tutto ciò di cui una città
piena di abitanti potrebbe avere bisogno; però, da che ho memoria,
è interamente vuota e deserta, e io in questa regione ci sono arriva­to da bambino».

– A cura di Luisa Campedelli. Con una nota critica di Nicoletta Prestifilippo –
Traduzione di Olivia Fidalgo

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Frank Richard Stockton nasce a Philadelphia nel 1834 e muore a Washington, nel 1902.
Rifiuta di studiare Medicina come vorrebbe il padre e diviene un abile incisore.
Nel 1873 entra nella redazione del St. Nicholas Magazine e inizia a scrivere fiabe
per bambini e novelle per adulti, che grazie alle figure curiose, bizzarre,
e un’ironia sottotraccia e intelligente si rivelano, in breve, molto popolari.
Su tutte, vale ricordare l’allegoria di The Lady, or the Tiger? (1882),
la raccolta di racconti The Bee Man of Orn (1887)
e The Lady and the Box (1902), storia di una donna che non invecchia.

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Ronnie Banti ha perso la scommessa

La vita è una lunga scommessa con se stessi diceva già Plauto, e il commediografo greco
ne aveva messe in scena delizie e tormenti fin dall’antichità. In altri, più recenti, qualcosa
forse è cambiato, e Ronnie Banti è un personaggio che pesta passi colmi di malinconie
e di furore, a cui Simone Ghelli affida un ruolo trasversale che percorre strade da intendere
pure in senso metaforico, per lirica d’e­spe­rien­za, dando voce e attenzione al fervore
che muove chi vince, chi perde, e chi nemmeno pren­de parte alle sfide quotidiane,
rinunciando in partenza. È una condizione interiore che appartiene a moltissimi uomini,
e la letteratura ne riporta biografie e vicende. Per questo Ronnie Ban­ti è protagonista
di una avventura che potrebbe essere quella di coloro per cui la vita è un panorama
in­gentilito dalle utopie e deturpato dalle aspettative.
«Nel soppalco, basso, Ronnie doveva entrare car­poni per non battere la testa.
Quando dormiva supino, a braccia incrociate sul petto per controllare il battito
del cuore, si sentiva come dentro a una ba­ra. E in un certo senso l’idea
di essere già morto lo tranquillizzava, forse per la consapevolezza
di u­na impresa che si dimostrò fin dal principio al di sopra delle sue forze».

– A cura di Nicoletta Prestifilippo. Con una nota di Filippo Tuena –

Simone Ghelli, insegnante con la vocazione dell’autore e viceversa, è stato tra i fondatori
del collettivo “Scrittori precari” e caporedattore della rivista cinematografica “Close up.
Storie della visione”. Predilige le forme brevi e ha pubblicato due romanzi
L’albero in catene (NonSoloParole, 2003) e Voi, onesti farabutti (CaratteriMobili, 2012) –
e tre raccolte di novelle: L’ora migliore e altri racconti (Il Foglio, 2011), Non risponde
mai nessuno
(Miraggi, 2017) e La vita moltiplicata (Miraggi, 2019). 

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Paesi tuoi

Nell’atmosfera rurale di un mondo dominato dagli istinti da cui tutto proviene, Paesi tuoi è l’opera che rivela Cesare Pavese alla letteratura e la scintilla d’origine del neorealismo. Emergono, già mature, le tematiche, il dissidio, lo stile del narratore che offre
un controcampo originale ai lettori, senza proporre geometrie di verità.
Più che dare soluzioni o ri­sposte, Pavese pone domande. E ribalta le prospettive
fin dal­l’inizio: i protagonisti, anziché andare in città a lavorare, si tra­­sferiscono in campagna.
Una sorta di emigrazione al contrario, un elemento che si carica subito di significato.
«A mezzogiorno vengono a chiamarmi e si mangiò un’altra volta il minestrone di verdure,
e le acciughe e il formaggio. Era così che quelle donne crescevano spesse, ma Gisella
che adesso mi guardava ridendo, sembrava invece fatta di frutta. Perché, una volta finito,
chiedo a Talino se non aveva delle mele, e lui mi porta in una stanza dove ce n’era
un pavimento, tutte rosse e arrugginite che parevano lei. Me ne prendo una sana
e la mordo: sapeva di brusco, come piacciono a me».

– A cura di Erika Cancellu e Nicoletta Prestifilippo –

Cesare Pavese nasce a Santo Stefano Belbo il 9 settembre 1908. Si laurea in Lettere, insegna per qualche tempo, poi inizia a tradurre autori inglesi e americani e a collaborare con la casa editrice Einaudi, di cui diventa una delle figure principali. Autore di romanzi, racconti, poesie, saggi, articoli e prose filosofiche, esordisce nel mondo letterario con Paesi tuoi (1941) e diventa uno dei maggiori intellettuali del Novecento italiano.
Scompare a Torino, suicida, nel 1950.

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Gli amori malati

Gli amori malati non è un saggio né un romanzo, bensì una «analisi artistico-letteraria di una patologia della realtà» con una scrittura ad alto coefficiente poetico, condotta nei territori del cinema, della musica, della narrativa. Istruzioni per l’uso: mettersi nello stato d’animo di chi si avvicina a un grimorio, un libro di incantesimi e magie, banchettando con ogni intruglio. Perché il mondo dell’arte e della letteratura hanno dato storie e immagini agli amori degli uomini di carne, nel tempo magico e feroce che consuma come una malattia. Del resto «sono tanti i modi in cui si dà amore, e sono giusti e ingiusti. Sono per la vita e per l’assenza della stessa. Quando sono distorti, ossessivi e affilati, sono il castigo che non si sa di infliggere. Gli amori senza arte, senza poesia, gli amori figli del nostro tempo, che non vanno tramutati in una storia da imprimere sulla carta sono spesso imperfetti, come sangue che pulsa nelle vene, e scorre più forte per l’offesa dell’indifferenza, o della misura errata. La loro risposta
a un sentimento idealizzato non combacia quasi mai con le voglie e con il bisogno».

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Nicoletta Prestifilippo, classe 1984, catanese di nascita e cittadina adottiva
dei luoghi della bellezza, collabora con periodicità anarchica a web magazine
come Quasicultura, Nazione Indiana, Kultural, Magazzini Inesistenti,
e ha pubblicato La bellezza dell’attesa per Edizioni della Sera.

Il volume, realizzato su cartoncino Terrarossa Materica di pura cellulosa ecologica,
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Il branco

Il branco, novella d’esordio di Giulia Gibelli, è un racconto che ricrea un’atmosfera punteggiata di bagliori e voci lontane, antidoto al grigiore degli stereotipi. Mette in luce le cose solite e quelle che lasciamo sfuggire troppe volte, i sentieri abituali e quelli inesplorati, e li rende vividi e possibili con una specie di tenue conforto e nessuna pretesa. «Le lacrime» scrive l’autrice, «sono come una pioggia d’agosto che porta via l’afa dei pensieri. Bisogna vederlo, il mondo, attraverso quelle lenti salate, o non ci s’accorge di quanta bellezza si può scorgere levandole. D’altronde, è dalle ferite che entra la luce, e l’intelligenza è l’apertura più vicina agli organi emotivi». La protagonista del racconto, Aura, si muove con leggerezza invidiabile nello spazio di poche pagine. Ma quella leggerezza non è da prendere con sufficienza, poiché arriva al lettore con il gusto per l’ironia e un pensiero ben oliato: un incastro perfetto tra passato e presente, col futuro che occhieggia da una parte. Si leggono così le avventure di una donna giovanissima, si fanno progetti a lunga scadenza con lei, anche se fino a poco prima si avevano mille anni sulle spalle.

«Immagina, Aura, i vicoli gelidi sferzati dalla tramontana e gli alberi ischeletriti, e al calare della sera un fil di fumo che s’alza da ogni tetto, da ogni casa lavata dal sapone pallido della luna. Per essere felici basta cogliere l’essenza delle cose ed esserne grati. Chi balla da solo in quel bagno di bellezza impara il gioco della grazia, cade e non si ferisce».

A cura di Luisa Previtera e Nicoletta Prestifilippo, illustrazioni di Chiara Gibelli.

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Giulia Gibelli studia Scienze psicologiche. Con la novella Il branco, che sancisce il suo esordio nella narrativa, ha vinto l’Instant Young Book, primo classificato tra 626 testi esaminati.
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Il volume, realizzato con materiali di pregio e carta interna avoriata extralusso,
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Verso il mistero

Verso il mistero è una raccolta di sei novelle pubblicata nel 1904 e baciata, a suo tempo, come tutte le opere di Cordelia, da un grande consenso di pubblico e di critica. I due racconti scelti e riproposti hanno una prosa musicale e immediata che percorre le tenebre e i prodigi della mente umana, fra il dolore e la pietà. Alla letterata ottocentesca si accorda una tendenza romantica di natura sociale, la predilezione per la virulenza e il dominio dei sentimenti, che tratteggia nella quotidianità dei borghesi e del popolino su cui innesta la gemma del mistero. Fa capo la sfera, allora in fase pionieristica, della psicanalisi. Con un tocco fiabesco l’autrice turba gli animi e le convenzioni, e tutti i personaggi vanno verso
le zone d’ombra o di luce del loro destino con un realismo dolcemente esistenziale.

«Difficile,» affermò Sem Benelli, in una delle sue taglienti note del tempo,
«non cader nella trappola di questa fattucchiera delle lettere».

Apparato critico a cura di Silvia Sbaffoni, postfazione di Nicoletta Prestifilippo.

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Cordelia, nome d’arte di Virginia Tedeschi, nasce a Verona nel 1849. A contatto con le Lettere fin da piccola grazie a precettori prestigiosi, dal 1879 pubblica manuali, romanzi, raccolte di novelle e soprattutto narrativa per ragazzi, diventando presto la “Signora delle fiabe” italiana. Il suo Piccoli eroi arriva alla sessantaduesima edizione. Per conto della casa editrice Treves si occupa di varie riviste di settore, di moda e per l’infanzia, tra cui il celebre periodico Margherita. Presidentessa del Comitato lombardo pro suffragio femminile,
co-fondatrice del Lyceum di Milano, istituto nato per incoraggiare le donne
agli studi e alle opere artistiche, scientifiche e umanitarie, non esita ad affidare
ai protagonisti delle sue avventure ruoli in forte anticipo sui tempi.

Contemporanea di Ibsen, di Flaubert, di Zola e Dostoevskij; nel suo salotto letterario accoglie i massimi autori e intellettuali del tempo, da Verga a D’Annunzio, da Carducci a Freud. È fra le prime donne a parlare di divorzio, di psicanalisi, di diritto all’istruzione; nel 1916 scrive il manifesto del femminismo tricolore e muore, a Milano, poco più tardi.
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La Trappola

Uno dei romanzi con il miglior ritmo del primo Novecento italiano. L’autore attrae prima con lenta serenità, poi afferra e trascina in una vertigine di eventi sempre più drammatici. Giuseppe A. Borgese, sul Corriere della Sera, definì La trappola «una di quelle rare e felicissime cose in cui qualche volta si adempie il destino di un artista».

Se gli amori avessero tutti una sorte benevola non si potrebbe crescere e trarre del buono anche nel dolore di un distacco, nella freddezza di mille incontri veloci e distanti, fino al sollievo di un momento decisivo. Oltre il perimetro del lieto fine ci sono il sospetto, l’inganno, la beffa, la rivalsa vuota e pallida di troppe esistenze: lo stolido Pulce, oste d’un piccolo borgo, l’astuto Paolo Mortarelli, marchese di Ciciano, e poi la bella Armida, fin troppo consapevole delle sue doti, che avrà modo di turbare gli animi di molti in maniera più che decisiva. «Paolo si meravigliava di non soffrire nel suo amor proprio di conquistatore, né soprattutto nel senso del ridicolo del quale era di solito così sensibile. E come se quando fu rassicurato sul punto che ai giovani preme tanto, potesse anche provar altri sentimenti, si mise a vedere come poteva tranquillizzare l’Armida. Più che il desiderio, ora per lui contava quel sentimento di tenerezza quasi fraterna, di protezione, che aveva già sentito standole vicino, che gli veniva forse dalla sua debolezza, da quella voglia di cedere che nonostante le sue parole, sentiva crescere in lei. Di parlare non gli riusciva:
allora si mise a guardar di fuori, dalla feritoia dove prima era stata lei,
come per lasciarla libera di alzare lo sguardo senza che si dovesse incontrare col suo».

Apparato critico a cura di Matteo Basora. Con uno scritto di Nicoletta Prestifilippo.

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Delfino Cinelli nasce a Signa il 16 agosto 1889. Fa il suo ingresso nel campo della letteratura a quasi quarant’anni, nel pieno della maturità artistica, dopo avere girato il mondo per conto dell’industria di famiglia, una delle fabbriche di cappelli di paglia più famose e apprezzate. Compie gli studi medi al Cicognini di Prato come tanti letterati contemporanei tra cui Pratesi, Benelli e D’Annunzio, prosegue l’istruzione negli istituti commerciali in Svizzera e Inghilterra. Con il romanzo La trappola, nel 1928, riscuote un enorme successo di pubblico, la critica lo segnala come una delle voci più interessanti nel nuovo panorama italiano, e il Comitato dei Trenta include il romanzo tra i migliori dell’anno. Più volte ristampato, ha dato il tema al film Notte Tragica, portato sullo schermo nel 1942 da Mario Soldati, sceneggiato da Alberto Moravia e interpretato dalla celebre Doris Duranti. Sempre nel ’28, con Castiglion che Dio sol sa, autentico libro-epopea, entra nella terna che si contende il premio Bagutta e vince il Borletti dell’Accademia Mondadori. Firma  le più valide versioni italiane dei racconti di Edgar Allan Poe, utilizzate dalla grande editoria fino al 1970. Nel contempo non smette di dare alle stampe novelle, drammi, testi teatrali, racconti e saggi fino alla morte.
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