Due novelle del Seicento

Le Due novelle del Seicento sono tratte da una raccolta di racconti molto rara di Adolfo Albertazzi, discepolo del Carducci e raffinato intellettuale del primo Novecento. Le sue novelle possono essere distinte in due categorie: quelle storiche, che riportano alla luce fatti riconducibili al vero o plasmano situazioni del presente sullo sfondo di tempi lontani; e quelle fantastiche, legate cioè alla pura invenzione dell’autore.  La distinzione tra le une e le altre non è mai nitida, ma il risultato è unico: l’autore parla di vita, spoglia la quotidianità fino a coglierne un’essenza che, nella storia dell’uomo, si classifica come il continuum esistenziale; quindi parla del proprio tempo, che però rispecchia il tempo del passato e lo riflette nel futuro. Con un sottofondo di ironia latente ma sempre vivo egli riesce a recuperare, senza esaurirsi in nessuna di esse, varie esperienze narrative: dalla fiaba popolare al bozzetto provinciale, passando per il grande scorcio romanzesco grazie a una misura breve, personale, che ne risolve le caratteristiche in un singolare equilibrio. Anche le due qui proposte, attuali benché ambientate in epoche lontane, venate di un umorismo tipicamente romagnolo,
fanno divertire e trepidare i lettori perché si collocano in quella zona misteriosa
che attraversa le nostre esistenze quotidiane.

Prefazione, postfazione, ricerche documentali e appendici critiche curate da Diletta Pacini.

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Adolfo Albertazzi (Bologna, 1866-1924), allievo di Giosuè Carducci, ha pubblicato la più pregevole e schietta biografia del maestro, Il Carducci in professione d’uomo, studi sui romanzi e romanzieri del Cinquecento e del Seicento, quindi una serie di saggi, romanzi, novelle. E nell’arte di queste ultime è stato fra i migliori interpreti
del proprio tempo, e forse di molti altri.

Il volume, realizzato in cartoncino di cellulosa ecologica e carta interna avoriata extralusso,
è in tutte le librerie o su https://divergenze.eu/prodotto/due-novelle-del-seicento/
dov’è possibile acquistarlo in copia numerata e senza spese di spedizione.

Lo scatto della lumaca

Lo scatto della lumaca è una raccolta di alcuni tra i racconti più rappresentativi di Luciano Zùccoli, nome d’arte del conte Luciano von Ingenheim. Fra banditi goliardi e amori febbrili, addii previsti e mai accettati, domina un senso di quiete scartata per errore e inseguita mentre il destino si burla dei desideri. Cinque ipotesi di felicità senza seguito,
ma taglienti come una consolazione.

«Egli non amava la moglie; il suo carattere, aspro nel fondo e ignaro di tenerezza, gli concedeva soltanto d’essere superbo e soddisfatto di Laura. L’amore degli altri, di tutti gli altri, giovani, maturi e vecchi, per la donna che gl’ap­parteneva, gli era sembrato, fino a quel giorno, strano e ridicolo. Da quel giorno cominciava a sembrargli minaccioso, lo turbava nei suoi facili giudizi, e lo costringeva a pensare a Laura in una maniera nuova, a guardarla con una curiosità in­quieta. Ella sapeva gli spa­simi di tutti quegli uomini, la disperazione di Silvio, lenta e cheta come scatto di lumaca, e non aveva mai fatta parola».

Apparato critico a cura di Valentina Sgarbi ed Erika Cancellu.

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L’autore, oriundo tedesco nato nel 1868 a Calprino, Svizzera, e morto a Parigi nel 1929, dopo la formazione classica ha avuto una vita avventurosa, dissoluta, devota ad un’Italia che vedeva come «patria naturale del­l’arte e della speranza, quantunque nutra un popolo pronto a tradirla con ardimento». Pri­ma ufficiale dell’esercito, quindi politico e giornalista, fonda “La provincia di Modena”, dirige per alcuni anni la “Gazzetta di Venezia”, collabora a “Il Marzocco”, al “Corriere della sera”. La fertile vena narrativa lo rende ben presto uno degli autori più noti del suo tempo, benché alterni lavori di consumo ad altri più fini. Da cin­que di questi ultimi sono tratti i racconti de Lo scatto della lumaca, felice espressione
che l’au­tore utilizza nelle novelle d’apertura e di chiusura.

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Il volume, realizzato in cartoncino ecologico Old Mill e carta avoriata bulk extralusso,
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acquistabile senza spese di spedizione in un lotto di copie singolarmente numerate.

Gli irresoluti

Sullo sfondo della provincia con le sue atmosfere ottuse e sature di ribellioni represse, Gli irresoluti narra di un’adolescenza in ritardo e la scoperta di una sessualità contorta tra fughe, insidie, rimpianti, e una galleria di personaggi di inconscia malizia e perversa innocenza. Un’opera d’impianto verista con la presa di un film, un mosaico di avventure estreme, tragiche, beffarde, nel quale si riflettono tratti della nostra.

«Nessuna parafrasi dai celebri indifferenti di Moravia,» osserva nel commento critico Pierangelo Miani, «benché l’intero romanzo suggerisca un’acuta metafora sociale: se quasi un secolo fa la questione ruotava attorno ai vizi, agli intrighi, alla noia ed al meschino disgu­sto delle abitudini della ricca bor­ghe­sia, oggi il focus è l’intimo dissidio tra il desiderio e la realtà cruda dei fatti: l’incapacità di sceglie­re, e dunque di essere. Ma se è facile dire che gli ir­resoluti sono il prodotto d’u­na società drogata di mi­ti, di mez­zi, di sirene capaci di sedurre intere le­gioni di wannabe, immaturi fi­gli del benessere privi d’anticorpi contro il virus dell’abbondanza di (finte) occasioni, difficile è trovare gli antidoti. Non a caso il protagonista, Andrea Gre­co, è l’archetipo del figlio perfetto: mite, obbediente, studioso, un automa addestrato a soddisfare i desideri della madre recitando il ruolo imposto dalle con­suetudini e dai taci­ti compromessi delle famiglie “per bene”. Eppure un giorno qualcosa rompe quell’equi­li­­brio cristallizzato in una forma tanto meticolosa quanto precaria, facendo scattare nel giovane la molla di una consapevolezza fino allora negata. L’au­trice rifiuta ogni mimetismo con le storie trite e ritrite sulla ricerca e la scoperta d’un mondo libero e armo­nioso, poiché sa che quel mondo non è lo stato ogget­tivo di un luogo ma una conquista interiore del singolo, e per ridestare dal torpore il protagonista strapazza con gusto
le regole e i conformi­smi dei quali è vittima. Dei quali, nella vita concreta,
chi più chi meno, vittime lo siamo un po’ tutti».

Con una prefazione critica di Pierangelo Miani.

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Rosa Elena Colombo vive e lavora a Milano. Laureata in Giurisprudenza, coltiva la passione per l’antropologia e lo studio dei popoli antichi. Traduttrice, ha pubblicato per «Temperino Rosso» una nuova edizione de Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. Nel novembre 2018 ha esordito con il romanzo Gente cattiva, edito da Oakmond Publishing.

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Il romanzo è in tutte le librerie e nei maggiori store online, oppure in copia singolarmente numerata, qui: https://divergenze.eu/prodotto/gli-irresoluti/

Incendio al catasto

Incendio al catasto è la seconda fatica letteraria di Carlo Montella, scritto e ambientato
in un 1956 che pare straordinariamente attuale. Nel romanzo l’autore mette in scena un’esilarante galleria di pavidi, inetti, fannulloni e imboscati còlta nelle sue miserie quotidiane, ma anche nella parte più intima e fragile. Impossibile non partecipare, sbigottiti ed esilarati, alle vicende degli impiegati attorno cui ruota la trama. Tuttavia, ogni sorriso ha un retrogusto acre perché getta luce sulle squallide condizioni di un’intera categoria (il catasto è metafora di un mondo più vasto), sul patetico servilismo tributato ai superiori, sulle assurde pastoie dell’elefantiaca macchina burocratica. È insomma la farsa dei grandi e piccoli passacarte, l’esibizione dei loro tic e delle manie, il museo delle truppe arruolate nei primi, corrosivi episodi di Fantozzi, epopea satirica di una categoria umana incapace di tutto.

«Si accorgeva, tornando a casa, di non avere appetito come al ritorno dall’ufficio, e pensava, ragionando fra sé, che ciò era naturale in fondo: anche le bestie, distolte dalla fatica, s’annoiano e finiscono per ammalarsi. Però un impiegato è un impiegato perché va in ufficio tutte le mattine e firma il registro di presenza all’entrata e all’uscita, e questo è l’unico modo per lui di sentirsi vivo, di sentirsi un uomo. Cos’è un impiegato, fuori del suo ufficio?».

Apparato critico a cura di Ambra Siciliano.

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Carlo Montella nasce a Napoli nel 1922. A quindici anni si trasferisce a Pisa dove si laurea in Lettere, insegna e diventa dirigente scolastico. Esordisce nei “Gettoni” di Vittorini nel 1953 con I parenti del sud, che vince il Premio Viareggio Opera prima grazie anche a una felicissima vena satirica. Con la stessa inclinazione e un tocco neorealista muove una critica corrosiva al servilismo burocratico nel romanzo Incendio al catasto, tradotto perfino in Russia e definito da Pasolini e Ungaretti, in omaggio all’opera di Gogol’, “Il cappottone”. Mentre collabora a giornali e riviste tra cui «Il Mondo», «Il Contemporaneo», «Il Ponte», «Tempo presente», «Il Messaggero» e «La Nazione», firma altri cinque romanzi
e si dedica alla divulgazione dei classici fino alla scomparsa, nel 2010.
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Incendio al catasto, realizzato su cartoncino ecologico e carta interna extralusso,
è in tutte le librerie, negli store online, oppure acquistabile sul sito della casa editrice,
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L’uomo che incontrò se stesso

L’uomo che incontrò se stesso è la commedia che ha consacrato Luigi Antonelli nella stretta cerchia dei monumenti del teatro italiano. Rappresentata per la prima volta il 23 maggio del 1918 al teatro Olympia di Milano, è l’avventura fiabesca e ironica di un uomo, Luciano de Garbines, a cui è data l’occasione di rimediare a una cantonata coniugale di vent’anni prima. Ma il sangue, sovente, fa ripetere gli sbagli, e rischia di viziare anche il senno di poi, che sposa a meraviglia il romanzesco con il reale, trasformando la fantasia in un gioco di beffe e di sentimenti quanto mai concreto. In questa suggestiva confluenza l’amor sacro e l’amore profano si accavallano, in una vicenda che fotografa in modo folgorante l’animo umano: «Ancora io non riesco a persuadere quell’uomo che la moglie l’inganna! Sapevo che avrei dovuto faticare, perché è da un bel pezzo che ci conosciamo, io e lui, però non avrei mai creduto di dover lottare contro un individuo simile! Quan­do poi penso che infine si tratta di persuadere me stesso, mi domando se si può essere più bestia di così». Riuscirà,
il protagonista, a convincere il suo doppio a correggere gli errori di un tempo, oppure l’esperienza si rivelerà anch’essa un’illusione, forse la più terribile di tutte? L’originale provocazione contenuta ne L’uomo che incontrò se stesso piacque a Gramsci: «Questa fine satira della vita ha stupito il pubblico a cui, da tempo, non si ammanniscono lavori atti a sviluppare un pensiero» che riconobbe gli intenti dell’autore, per il quale ogni «piccola vicenda deve aprire un mondo dinanzi agli occhi dello spettatore». E nell’opera il registro fantastico è stemperato dall’ironia: dai lividi toni del primo atto si scivola nella pochade
e nella farsa, a loro volta annegate in un lucido, disperato disincanto. Una commedia
che mette in dubbio l’esperienza e costringe a interrogarsi sul peso effettivo
di essa nel destino, in un nuovo modello drammatico e antropologico.

Apparato critico a cura di Francesca Benazzi ed Angela Di Maso

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Luigi Antonelli nasce nel 1877 a Castilenti, una piccola frazione del comune di Atri in provincia di Teramo, compie studi regolari e corona il percorso frequentando i corsi di Medicina e Lettere presso l’università di Firenze. Insieme al pittore Basilio Cascella fonda “L’illustrazione abruzzese”, ed entra in contatto con alcuni degli autori e intellettuali più in voga dell’epoca, su tutti il conterraneo d’Annunzio; quindi si trasferisce in Argentina per alcuni anni, occupandosi di giornalismo. Giornalista e narratore, è stato uno dei commediografi che nel primo Novecento cambiarono il linguaggio del teatro italiano. Fedele ai princìpi del grottesco, contribuì a far recepire il messaggio pirandelliano fra essere e apparire con un’amara, fantasiosa satira delle illusioni. Fondatore de “L’illustrazione abruzzese”, direttore de “La patria degli italiani” a Buenos Aires, collaborò con le maggiori riviste drammaturgiche fra le due guerre mondiali. Nel 1931 divenne critico teatrale del “Giornale d’Italia”, ruolo che ricoprì fino alla morte. Oltre a L’uomo che incontrò se stesso firmò altre opere di grande successo come Il maestro, la farsa Il barone di Corbò, divenuta poi un film, La donna in vetrina, e la commedia allegorica L’isola delle scimmie. Il successo continuerà a baciare i lavori dell’autore abruzzese finché avrà vita. Il 21 novembre 1942, quando spirò, nella amata Pescara, la sua opera più famosa raccoglieva l’ennesima messe di applausi e consensi al Teatrul Național din București
(teatro Nazionale di Bucarest) completamente esaurito per l’evento.

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Il volume, realizzato su cartoncino ecologico e carta interna extralusso,
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Edipo a Berlino

Edipo a Berlino è un romanzo-epopea di Francesca Veltri, ricercatore di Sociologia Politica presso l’Università della Calabria. Karl, un giovane nazista, vede capovolta la sua esistenza da un fatto di sangue di cui è protagonista, e dalla scoperta di avere origini ebraiche. Sperimenta così su di sé la lacera­zione fra passato e presente, identità e menzogna,
vittima e carnefice. Un racconto corale che espone a conflitti di idee e di valori,
e riscrive la tragedia antica di un mondo che si sfalda, il dolore degli affetti perduti,
il senso di una Storia che si apre verso un futuro diverso.

«Prima che potesse capire cosa stesse succedendo, lo sospinsero dentro. Balbettò
che doveva prendere il treno, gli dissero che sapevano loro cosa fare, chiusero
lo sportello e la camionetta ripartì. Dentro era buio, i finestrini erano oscurati.
Chiuse gli occhi, strizzandoli, ed ebbe la visione confusa di un cieco,
vertiginoso turbinio intorno a sé. Si abbandonò al moto della camionetta,
gli occhi fissi in un punto indefinito sopra di lui, assorti a cercare quello che non c’era,
il futuro che non conoscevano, le immagini di un tempo che non ricordavano più».

Con un approfondimento critico di Alessandra Lorini

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Francesca Veltri, nasce a Pisa il 16 ottobre del 1976, è ricercatore di Sociologia Politica presso l’Università della Calabria. Ha pubblicato per la casa editrice Rubbettino due saggi sul pensiero di Simone Weil e il dibattito politico francese fra le due guerre, e nel 2017 è stata coautrice del testo Il Movimento nella Rete (Rosenberg & Sellier). È membro dell’Association pour l’étude de la pensée de Simone Weil, e dell’Associazione Italiana di Sociologia (AIS). Finalista al premio Calvino nel 2002 con il romanzo Davide era stanco, nel 2015 arriva al 2° posto al concorso letterario La Giara RAI, e nel 2016 pubblica con RAI ERI, in formato digitale, Edipo a Berlino, che Divergenze propone per la prima volta in volume.
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Goyescas

Goyescas è il romanzo rivelazione di Francesca Maria Villani,
pianista formatasi al Conservatorio “Nino Rota” di Monopoli, definito dalla critica
«una delle dieci opere fondamentali per capire la poetica del sud Italia».
Strutturato in undici capitoli, il racconto dipinge con una scrittura ad alto tasso emotivo il frammento di vita di una giovane donna di ritorno nel paese natale, per un tempo che le permette di comprendere ciò che non aveva avuto modo di focalizzare. Nell’avvicendarsi di presente e passato si mescolano tradizioni e vicende di un borgo dell’entroterra pugliese: ogni scorcio è il pretesto per un tuffo negli incantesimi del territorio, tra figure di un mondo che sembra svanito appena ieri e dove amori, delusioni, beffe e incidenti si rivelano nella loro lirica semplicità. La protagonista si muove tra le vie del paese ascoltando e narrando a sua volta fiabe e aneddoti, mentre cerca sé stessa e la musica che crede di avere abbandonato. Un libro di conoscenza e di rara eleganza intellettuale.

«Certi amori non muoiono. Anche quando pare che si allontanino, quasi sempre per un nostro capriccio, possiamo solo illuderci che facciano male, ma non operano mai per sottrazione: la felicità non è matematica, è empatia».

Apparato critico e postfazione di Marco Proietti Mancini

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Francesca Maria Villani nasce a Manduria nel 1999 e vive a Carosino, in provincia di Taranto. Inizia lo studio del pianoforte all’età di cinque anni. A nove viene ammessa al Conservatorio “Nino Rota” di Monopoli, nella classe del maestro Benedetto Lupo, che la seguirà fino all’VIII anno. Si diploma con il massimo dei voti e la lode nel marzo 2018, sotto la guida del maestro Carlo Gallo. Ha eseguito con l’orchestra del Conservatorio il Konzerstuck op. 92 di Schumann e il secondo concerto di Beethoven, suonando anche per l’Eurorchestra di Bari e per l’Agimus – sezione Roma. Vincitrice di numerosi concorsi nazionali e internazionali, ha ricevuto il Premio Speciale Bach per la migliore esecuzione di un pezzo del compositore tedesco, quindi il primo premio al GrandPrize Virtuoso 2016, e selezionata fra i vari partecipanti ha suonato alla Royal Albert Hall di Londra. Ha frequentato come allieva le masterclass dei maestri Burato, Marvulli, Thiollier, Ferrati, Rivera, Delle Vigne.
È iscritta alla facoltà di Filosofia all’ateneo di Bari.
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La rivoluzione, forse domani

La rivoluzione, forse domani è la trascrizione di un manoscritto autografo, ritrovato
in circostanze fortunose, un incantesimo che unisce una storia d’amore e di umanità
in tempo di guerra, l’inno appassionato per una terra e una vicenda di resistenza
prima della Resistenza
, firmata da un’autrice coltissima e misteriosa.
Una novella di valore storico e sociale incalcolabile.

È nel lembo di terra fra Costa de’ Nobili e Zenevredo, due borghi divisi da un ponte di barche tra i salici sul fiume Po e i primi rilievi dell’appennino, che si consuma la vicenda narrata. Vicenda che si apre in un clima campagnolo, quasi georgico, e pur entrando subito nel climax del conflitto attraverso i dialoghi d’un gruppo di vignaioli e l’anziano signor Balossi, per due capitoli descrive la nascita di un legame amoroso tra il Michele – con l’articolo davanti –
e Melania, una delle figlie gemelle della perpetua di un parroco della zona. Ma è anche
e soprattutto un documento che testimonia una forma di Resistenza in un periodo in cui parecchia stampa era allineata, i dissidenti erano molti meno rispetto ad un paio d’anni dopo, e parte di quella dissidenza non era viva nella popolazione, se non attraverso forme improvvisate come quella del Michele e della sua cerchia d’amici. L’autrice, ex insegnante, padrona di almeno quattro lingue, ha una profonda conoscenza delle dinamiche letterarie
e unisce linguaggio dialettale e passaggi di notevole finezza che ad ogni rilettura
trasmettono qualcosa in più: grandi e piccole illuminazioni, delicati scorci emotivi
e un tono fatale in cui muove gli uomini sul palco della II Guerra Mondiale,
visto da chi l’ha vissuta sulla pelle, nei visceri e nello spirito.

– Apparato critico di Chiara Solerio, postfazione del filosofo Marco Vagnozzi –

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Un tranquillo pavido di provincia

Un tranquillo pavido di provincia è un racconto dallo stile immediato, che dietro a una apparente leggerezza propone temi e domande su cui è difficile non interrogarsi. Del resto vivere è un mestiere difficile; per questo Enrico, animo dai pensieri incerti, lascia decidere gli eventi per lui, finché uno di essi lo pone di fronte alla scelta più drastica. Con una scrittura trasparente, Lucio Basile affida al caso il compito di mettere pace al viaggio di un uomo che guarda il mondo con gli occhi estranei ad ogni certezza.

«Non vorrei prendermi per il culo, che è uno degli accessori più delicati.
Vivere sapendo di dover morire è una tesi incontestabile, tutto dipende
dalla maniera in cui viene la consolazione».

Postfazione di Nicoletta Leva. Con una nota di Pierangelo Miani.

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Lucio Basile, abruzzese di Moscufo non ha mai capito se gli sarebbe piaciuto più
essere un pediatra o uno scrittore. In attesa di dirimere il dubbio fa entrambe le cose,
e ringrazia tutti per la stima. È autore di racconti e casi clinici romanzati,
che pubblica su riviste di settore: non li preferisce ai romanzi, sono solo meno faticosi.
Frequenta, con alterni profitti, la scuola di scrittura Macondo di Pescara.
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Gli Sparvieri

Gli sparvieri è la seconda opera narrativa di Pietro Maffi, pubblicata in origine come romanzo d’appendice sul giornale pavese Il Ticino, nel 1898. Abitudini, fatiche, gioie e tragedie
di Ballino (Corteolona), un paese che è tutti i paesi italiani di fine Ottocento, ritratto manzoniano di una società e un ambiente irripetibili. Tratta da un evento realmente accaduto, rielaborato con licenza narrativa, è una storia priva di nostalgie e compiacimenti illanguiditi dal tempo, che non concede una riga alla retorica di “quanto eravamo belli” perché lo siamo stati, e tanto, ma senza rendercene conto.
E quel candore semplice e ingenuo l’abbiamo perduto.

In bilico fra la ricostruzione oggettiva e il bozzettismo (memorabile il tragicomico dottor Fasolari), il Maffi compie una piccola Recherche in ambito padano: contadini, preti, genti dal mestiere antico e biechi intriganti, personaggi di una geografia che per citare Piero Chiara, va cercata «dove si trovano tutti luoghi immaginari nei quali si svolge la favola della vita».

Apparato critico e ricerca archivistica a cura di Lorenzo Campanella.
Con una nota di Alessandro Buroni.

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Pietro Maffi nasce il 12 ottobre del 1858 a Corteolona, un centro della bassa padana noto per essere stato residenza di re Franchi e Longobardi, da cui Lotario I emanò il capitolare che diede origine al futuro ateneo di Pavia. Bibliofilo, giornalista, letterato, divulgatore di scienze astronomiche e meteorologiche, studioso di sismologia, autore de La cosmografia nelle opere di Torquato Tasso, fondatore della «Rivista di Fisica, Matematica e Scienze Naturali», di «Vita Nova» e del quotidiano cattolico «Il Messaggero toscano», promotore della prima cattedra di Sociologia in un seminario, prima sacerdote e poi arcivescovo di Pisa, dopo la nomina da parte di Pio X diventa il cardinale scienziato, figura leggendaria nel dialogo tra scienza e fede. La sua opera Nei cieli: pagine di astronomia popolare esaurisce due edizioni ed è ristampata più volte. Gli astri, su di lui, esercitano un effetto magnetico. La curiosità per l’universo e i suoi misteri lo spinge a studiarne a fondo il fenomeno e la traiettoria delle stelle cadenti. Realizza, così, il globo meteoroscopico, che riproduce nei dettagli e illumina dall’interno come fosse un cielo in miniatura, e di cui un esemplare è presentato alla Esposizione Universale di Parigi del 1900. Membro della Société astronomique de France, della Associazione meteorologica e della Società astronomica italiana, dell’Accademia pontificia dei Nuovi Lincei, dal 1904 è presidente della Specola vaticana. L’amore per i libri
lo porta a creare la Biblioteca Maffi di Pisa, un’autentica istituzione culturale che conserva oltre cinquantamila volumi, manoscritti, incunaboli, e altri testi rarissimi. Tra il 1894 e il 1898, sulle pagine de «Il Ticino», firma due romanzi d’appendice: Fior che muore, una novella di stampo educativo, quindi Gli sparvieri, che oltre a ritrarre il paese di Corteolona nei suoi scorci più caratteristici e negli abitanti, si rivela una commedia manzoniana brillante,
carica di un umorismo mai domo e spaccati di umanità perduta. Ritenuto papabile
nei conclavi del 1914 e del 1922, muore a Pisa il 17 Marzo del 1931.
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