L’albero della morte

In una Roma oggi perduta eppure uguale, fra le glorie di un «centro al centro del mondo», prendono vita le vicende e i temi de L’albero della morte. La gelosia e i sentimenti obliqui come i vicoli, il vento della modernità e la volontà di riscatto femminile nei tumulti socioculturali del mondo borghese di inizio Novecento, si fondono in un racconto analitico e introspettivo di rara potenza. Un jeu de pièces emotivamente incisivo e di grande attualità.
«Germana rimase a lungo immota nel vano della finestra a seguire con l’occhio le accese nubi, che lenta­mente si assottigliarono, impallidirono, fuggirono leg­gere, lasciando appena sullo sfondo azzurro del cielo una traccia rosata. La colonna si fece tetra, l’ombra salì col suo tacito flutto, sempre più denso, a lambire e ad avvolgere le rovine del fòro, le lampade ancora smorte nel chiarore opaco della luce fuggente, sembravano occhi velati di tristezza.
Allora Germana si nascose il viso nelle palme, crollando il capo desolatamente
e traendosi dal petto tre­muli sospiri. Un dissolvimento di tutto l’essere le fece abbandonare
il busto sul davanzale ed ella riconobbe che l’orgoglio cedeva in lei, sopraffatto dal dolore,
e che le dolcezze del passato le facevano ressa intorno alla memoria,
domandando imperiosamente di rivivere a qualunque prezzo».

– a cura di Maria Novella Troni –

Clarice Tartufari nasce a Roma nel 1868 e debutta, poco più che ventenne, con alcune sillogi poetiche, ma è con la narrativa che ottiene grandi riscontri. Oltre a drammi teatrali e pregevoli novelle, di lei rimangono romanzi importanti come Roveto ardente (1905),
Fungaia (1908), Il miracolo (1909) e All’uscita del labirinto (1914).
Di fronte al decadentismo dei contemporanei, l’autrice brilla per gli accalorati intenti
sociali e umanitari, che danno alle pagine un tono d’enfasi e trame introspettive
di notevole rigore. Firma di punta per alcuni fra i maggiori periodici del tempo,
dal “Fanfulla della domenica” alla “Nuova Antologia”, la Tartufari è anche una tra le prime
e più applaudite conferenziere. Scompare a Bagnore di Monte Amiata nel 1933.

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Il pastore sepolto

Novella di lirica asprezza, Il pastore sepolto è ambientato nei latifondi in rovina di un meridione di antica civiltà, ma oppresso da un lungo abbandono. L’autore narra le conseguenze della lotta quotidiana di una famiglia che è simbolo di un popolo e di una terra intera, e lo fa con la poesia crudele della concretezza. Perché Jovine, pater familias degli iperrealisti, con uno dei più importanti racconti sulla questione meridionale, in un’atmosfera di tragedia e sortilegio, traccia l’anamnesi di un destino attuale in ogni tempo.
«Non vedevo, come gli inverni precedenti, allegri focolari, e non sentivo odore di vivande nei vicoli fradici di mota; dalle porte buie s’indovinavano i camini spenti.
Sulla bottega del barbiere e accanto all’ufficio del cassiere comunale c’erano grandi manifesti che rappresentavano bastimenti a vapore in mezzo al mare azzurro; sui fianchi delle grandi navi c’erano piccole imbarcazioni a remi cariche di signore velate e di uomini in cilindro.
Tutti i contadini di Guardialfiera volevano mettersi il cilindro
e andarsene per mare verso l’America azzurra».

– A cura di Michela Iannella –

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Francesco Jovine è stato uno dei più fini letterati del Novecento italiano. Nato nel 1902 a Guardialfiera, da un’umile famiglia molisana, fu maestro, assistente universitario e direttore didattico. Collaborò con numerosi giornali, animò la vita culturale di Roma insieme a Corrado Alvaro e Libero Bigiaretti, fondò il Sindacato Nazionale Scrittori e promosse dibattiti, conferenze e attività intellettuali.
Legato alla terra natale e alla sua poetica, vi ambientò Signora Ava (1942) e Le terre del sacramento (1950), due tra i romanzi più significativi dell’ultimo secolo. Il pastore sepolto, scritto nel 1945, è tratto dall’omonima raccolta di racconti.

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Paesi tuoi

Nell’atmosfera rurale di un mondo dominato dagli istinti da cui tutto proviene, Paesi tuoi è l’opera che rivela Cesare Pavese alla letteratura e la scintilla d’origine del neorealismo. Emergono, già mature, le tematiche, il dissidio, lo stile del narratore che offre
un controcampo originale ai lettori, senza proporre geometrie di verità.
Più che dare soluzioni o ri­sposte, Pavese pone domande. E ribalta le prospettive
fin dal­l’inizio: i protagonisti, anziché andare in città a lavorare, si tra­­sferiscono in campagna.
Una sorta di emigrazione al contrario, un elemento che si carica subito di significato.
«A mezzogiorno vengono a chiamarmi e si mangiò un’altra volta il minestrone di verdure,
e le acciughe e il formaggio. Era così che quelle donne crescevano spesse, ma Gisella
che adesso mi guardava ridendo, sembrava invece fatta di frutta. Perché, una volta finito,
chiedo a Talino se non aveva delle mele, e lui mi porta in una stanza dove ce n’era
un pavimento, tutte rosse e arrugginite che parevano lei. Me ne prendo una sana
e la mordo: sapeva di brusco, come piacciono a me».

– A cura di Erika Cancellu e Nicoletta Prestifilippo –

Cesare Pavese nasce a Santo Stefano Belbo il 9 settembre 1908. Si laurea in Lettere, insegna per qualche tempo, poi inizia a tradurre autori inglesi e americani e a collaborare con la casa editrice Einaudi, di cui diventa una delle figure principali. Autore di romanzi, racconti, poesie, saggi, articoli e prose filosofiche, esordisce nel mondo letterario con Paesi tuoi (1941) e diventa uno dei maggiori intellettuali del Novecento italiano.
Scompare a Torino, suicida, nel 1950.

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Gelosia

Gelosia è il romanzo che meglio di ogni altro rappresenta la transizione dal Verismo
ai movimenti antiletterari del primo Novecento. Eppure ad Alfredo Oriani è riuscita, controvoglia, un’impresa unica: essere al di fuori di qualunque gruppo, salotto, corrente letteraria, benché fra gli autori più letti del suo tempo. Provocatorio, irriverente, bollato dalla critica come scandaloso, nell’ultimo decennio dell’Ottocento firmò opere di grande valore. Gelosia, nel 1894, inaugura la serie con il drammatico racconto
di uno squallido amore provinciale, metafora di un vivere borghese
e di un complesso di fragilità tuttora attuale.
«Nella sua affezione per l’avvocato non aveva ancora provato nessuno di quei trasporti deliranti, che sono quasi sempre per la donna la scoperta di se medesima.
Ma qualche cosa dormiva sotto la sua fiorente gioventù, una bramosia
di godimenti sconosciuti, un bisogno a grado a grado meno inconsapevole
di entrare nella zona torrida della passione,
ove le vite si distruggono alla fiamma di un altro sole,
o n’escono così temprate che nulla può quindi corroderle».

– Apparato critico a cura di Alessandro Gaudio –

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Alfredo Oriani (Faenza, 1852 – Casola Valsenio, 1909), narratore, saggista e collaboratore del “Corriere della Sera”, “La stampa”, “L’alba” e il “Giornale d’Italia”, è fra i grandi misconosciuti del secondo Ottocento italiano. Si laurea in Giurisprudenza a Napoli, ma sceglie la vita delle Lettere. Dopo una lunga fase di romanzi e novelle messi all’indice e ignorati, con Gelosia (1894), La disfatta (1896), Vortice (1899) e Olocausto (1902)
viene accolto dalla critica con favore più largo, prima d’essere strumentalizzato dal fascismo
e tornare in un oblio a cui è ora di togliere il velo.

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La composizione del grigio

La composizione del grigio è un romanzo in cui le indicazioni geografiche e temporali sono vaghe. I nomi dei personaggi sono assenti in quanto si tratta di anime, ombre, la cui identità non può essere pirandellianamente racchiusa in un nome imposto dall’au­tri­ce. E poiché il grigio ha origine dall’unione di tutti i colori e si rivela una continua opportunità di vita, come in un processo alchemico la protagonista dovrà attraversare tutti i colori per comprendere le sfumature che la completano come artista, amante, figlia e madre.
«All’epoca credevo e speravo in non so che cosa. Non possedevo bene più prezioso della convinzione che la mia vita, un giorno, sarebbe cambiata; in meglio, s’intende.
D’altron­de, chiunque, con una famiglia disastrata, si sarebbe aggrappato
con le unghie e con i denti a un tempo non ancora inchiodato all’irreversibilità del vissuto».

– Apparato critico a cura di Mara Venuto –

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Sara Notaristefano è nata a Taranto nel 1980 e da anni risiede a Merano, dove insegna Lettere nella scuola secondaria di II grado «Gandhi». Pubblica saggi e recensioni sul semestrale di critica letteraria “Incroci” e sul relativo blog. Appassionata di musica,
studia canto moderno e jazz. Nel 2012 ha curato un’antologia di testi che indaga i rapporti tra poesia e canzone d’autore: Note di poesia.
Canzoni d’autore in lingua italiana, inglese e francese
(Stilo Editrice).
Autrice di novelle e poesie in volumi antologici, nel 2020 il suo racconto
Breve storia di ordinari alibi familiari è stato selezionato tra i vincitori
del Premio Velletri Libris, menzione speciale Fernando Cancellieri.

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Il volume, realizzato su cartoncino di pura cellulosa ecologica e marcato a feltro, carta interna bulk ad effetto vintage, è in tutte le librerie e nei maggiori store online,
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Lucia

Sul piroscafo Cavour, che nei primi anni Trenta fa la spola tra l’Italia e l’America, la piccola Lucia è coccolata da tutti eppure sola al mondo. La madre, giovane cuore semplice, l’ha portata con sé dai paesaggi duri e fiabeschi dei monti toscani alla frenesia ottusa delle metropoli, dai borghi rurali e fertili di Montelandi alla sterilità spaventosa e opprimente di New York, verso il miraggio di una speranza che è nel contempo incanto e disillusione, e rimanda alla più antica tradizione della tragedia: quella greca. La potenza lirica del romanzo è amplificata dalla scrittura dell’autore, maestro nel dipingere i contrasti fra due mondi antagonisti l’uno dell’altro: la solennità dura ma soave dei campi, la visione poetica della vita che li attraversa da un lato, e dall’altro il grigiore dei torrenti di luci artificiali e di motori
che della vita sono la negazione. Tutto, arricchito da un linguaggio
denso di regionalismi e preziose sonorità.
«La vita affettuo­sa dei ricordi si svolge dalle cose sul­le quali l’abbia­mo lasciata e ci riprende come se ci avess­e a­spettato; i cambiamenti che possono esservi avvenuti ci fan­no sorridere della loro naturalezza, e sembra esserne causa o parte. Così, se gli alberi che ricordiamo secchi nella veste invernale li ritroviamo verdi di gemme in boccio, se i rii che nei ricordi erano arsi e pietrosi nelle magre estive li rivediamo scorrere torbi delle piogge autunnali, a sentirli rinvivìre ci danno una contentezza acuta, quasi fos­simo stati noi a dar corso alle acque, e nel volger delle stagioni fosse complice il volger dell’età».

– Apparato critico a cura di Giulia Sacchi e Tatiana Strarosti –

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Delfino Cinelli (Signa, 1889 – Siena, 1942), autore versatile, legato ai territori verdi e profumati della Toscana, diluiti in rapidi cenni o dipinti con malinconico abbandono, ha collaborato con celebri riviste e testate giornalistiche firmando articoli, fiabe, novelle, saggi, romanzi, poesie e sceneggiature. Ha curato, per primo, con Elio Vittorini, la traduzione delle opere di Edgar Allan Poe. Dimenticato dopo la morte, nonostante la statura artistica,
la sua opera è in corso di recupero presso Divergenze, che ha inaugurato la collana
di letteratura Le scie con il racconto La trappola, pubblicato nel 2018.

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Il volume, realizzato su cartoncino ecologico e carta 1.8 extralusso ad effetto vintage,
è in tutte le librerie e nei maggiori store online, oppure in copia numerata su
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L’inutilità dei buoni

Ne L’inutilità dei buoni Roberto non trattiene ricordi, ed occupa il vuoto della mente aggrappandosi alla ripetizione di gesti meccanici e ossessivi, controllato dagli assistenti sociali. Bruno, invece, convinto di essere vittima dell’egoismo altrui, si ostina in modo distruttivo a trovare negli altri l’approvazione di cui ha bisogno. Storie parallele
in un romanzo di formazione al contrario, in cui l’incontro inconsueto di due uomini
nei panni del medesimo, fa emergere il lato oscuro di entrambi.

Le parlai delle mie paranoie, delle mie titubanze, dell’ipersensibilità.
«E ti stupisci di essere da solo?» m’aveva detto ridendo, con un’espressione
che pareva alludere a qualcosa di più promettente.
«Mi stai dicendo che sei ancora interessata?» le avevo chiesto allora,
accorgendomi subito d’avere frainteso.
«È tardi, ma sarebbe stato bello, allora. Chissà cosa sarebbe successo
se solo avessi risposto per tempo».
Era il suo modo di rifiutarmi, l’unico che le avrebbe garantito
un interesse perpetuo da parte mia.

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Alessandro Tuzzato insegna Italiano e Storia al I.I.S Levi-Ponti di Mirano,
in provincia di Venezia. Ha vissuto per anni in California, dove ha conseguito il dottorato
di ricerca in Letteratura italiana alla Stanford University. Con L’inutilità dei buoni
è arrivato in finale alla ventottesima edizione del Premio Italo Calvino.

Il volume, realizzato su cartoncino ecologico e carta avoriata extralusso, è in tutte le librerie
e nei maggiori store online o su https://divergenze.eu/prodotto/linutilita-dei-buoni/
in copia singolarmente numerata e senza spese di spedizione.

Avenida Libertador

Avenida Libertador narra di persone scomparse, di chi le ha cercate e di chi non ha mai smesso di farlo. Buenos Aires, 1978. Durante la dittatura militare, la città e la nazione intera sono in fermento per i mondiali di calcio. Ma all’ombra della festa si consuma il dramma dei desaparecidos, una realtà invisibile fatta di esistenze e identità negate, nella quale molti cercano un punto di luce tra fuga e verità. L’autrice ricostruisce informazioni ed eventi documentati, dando vita a una storia di persone e di luoghi carichi di valore testimoniale. «L’uomo con il giubbotto di pelle pensò a quel viso di ragazza sconosciuto, aprendo tutti i cassetti della memoria senza risultato. Quindi pagò il caffè, diede un’occhiata veloce ai titoli del Clarín e uscì sbattendo la porta, facendo tremare il chiama angeli. Poi, con calma, salì su una Ford Falcon parcheggiata a pochi metri. Tamar e Magda videro l’auto allontanarsi, e alla sorella di Lucas venne un nodo in gola. Quell’auto era simile a quella che, due notti prima, aveva visto allontanarsi dalla finestrella della soffitta, ma non disse nulla a Tamar, non aveva senso allarmare l’amica per una stupida sensazione. Pagarono, salutarono Esteban e si diressero verso il commissariato di Buenos Aires per cercare notizie di Lucas Tizak,
un nome, un cognome e un volto che loro non volevano dimenticare».

Con una appendice critica di Cecilia Serra.

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Cristina Amato nasce a Catania nel 1980. Laureata presso la facoltà di Lettere e Scienze Umane di Neuchâtel, lavora come copywriter e digital marketing strategist presso un’agenzia pubblicitaria di Catania. Ama i pois, il cinema e i bassotti.
Affetta da patologie letterarie, sta ancora contando i propri sogni nel cassetto.

Il volume, realizzato su cartoncino ecologico e carta bulk morbida ad effetto vintage,
è in libreria, nei maggiori store web, o su https://divergenze.eu/prodotto/avenida-libertador/
in copia singolarmente numerata e senza spese di spedizione.

La scelta di Lazzaro

La scelta di Lazzaro non è un poliziesco, un noir, un thriller o un ritratto storico alla Bukowski di una generazione uscita con troppi acciacchi dagli anni di piombo: è tutto insieme e molto di più. È la vicenda dai confini larghi e imperfetti di Lazzaro Mainardi, umana proprio perché estrema e priva di rimorsi anche quando il protagonista si lascia vivere, pensare, incolpare, ed «alzati e cammina» lo dice a ciascuno di noi. «Sulle strade corrono auto inani­mate, uno scatolame brutto d’estetica e di contenuti. Nessuno si saluta, perfino il tram pare pigro e svogliato. L’odore di asfalto brucia le narici, e penso che se mi fosse data la scelta vorrei rinascere gatto. Gatto di campagna, non di città; di quelli magri e con il pelo scarruffato, imperfetto, ma liberi davvero, liberi di decidere il proprio destino senza vederlo spegnersi
ai piedi d’una poltrona, prigionieri di edifici incapaci di nutrire la fantasia».

Apparato critico curato da Arianna Giancani.

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Alessandro Bastasi è nato a Treviso nel 1949 e attualmente vive a Milano. Attore e autore
di numerosi articoli di argomento teatrale per riviste di settore e quotidiani, ha trascorso lunghi periodi all’estero, in particolare a Mosca. Il passaggio alla nuova Russia gli ha dato materia per il primo romanzo, La fossa comune, pubblicato nel 2008 e ambientato nella città del Cremlino. Ha poi firmato La gabbia criminale (2010) e Città contro (2012) per Eclissi, quindi Era la Milano da bere (2016), Morte a San Siro (2017), Notturno metropolitano (2018) e Milano rovente (2019) con Fratelli Frilli Editori.
Suoi racconti sono presenti in varie antologie e siti letterari.

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Due novelle del Seicento

Le Due novelle del Seicento sono tratte da una raccolta di racconti molto rara di Adolfo Albertazzi, discepolo del Carducci e raffinato intellettuale del primo Novecento. Le sue novelle possono essere distinte in due categorie: quelle storiche, che riportano alla luce fatti riconducibili al vero o plasmano situazioni del presente sullo sfondo di tempi lontani; e quelle fantastiche, legate cioè alla pura invenzione dell’autore.  La distinzione tra le une e le altre non è mai nitida, ma il risultato è unico: l’autore parla di vita, spoglia la quotidianità fino a coglierne un’essenza che, nella storia dell’uomo, si classifica come il continuum esistenziale; quindi parla del proprio tempo, che però rispecchia il tempo del passato e lo riflette nel futuro. Con un sottofondo di ironia latente ma sempre vivo egli riesce a recuperare, senza esaurirsi in nessuna di esse, varie esperienze narrative: dalla fiaba popolare al bozzetto provinciale, passando per il grande scorcio romanzesco grazie a una misura breve, personale, che ne risolve le caratteristiche in un singolare equilibrio. Anche le due qui proposte, attuali benché ambientate in epoche lontane, venate di un umorismo tipicamente romagnolo,
fanno divertire e trepidare i lettori perché si collocano in quella zona misteriosa
che attraversa le nostre esistenze quotidiane.

Prefazione, postfazione, ricerche documentali e appendici critiche curate da Diletta Pacini.

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Adolfo Albertazzi (Bologna, 1866-1924), allievo di Giosuè Carducci, ha pubblicato la più pregevole e schietta biografia del maestro, Il Carducci in professione d’uomo, studi sui romanzi e romanzieri del Cinquecento e del Seicento, quindi una serie di saggi, romanzi, novelle. E nell’arte di queste ultime è stato fra i migliori interpreti
del proprio tempo, e forse di molti altri.

Il volume, realizzato in cartoncino di cellulosa ecologica e carta interna avoriata extralusso,
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dov’è possibile acquistarlo in copia numerata e senza spese di spedizione.